Melbourne

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martedì 17 febbraio 2015

GIORNO 12-13 - THE HEART AND THE SOUL OF AUSTRALIA

GIORNO: 15/02/15 - 16/02/15
STATO: QUEENSLAND
KM GIORNALIERI: 775 + 360
PARTITI DA: Camooweal 
ARRIVATI A: Townsville


La notte a Camooweal non è delle migliori. Un gruppo di ragazzi del posto decide infatti di utilizzare la piscina del campeggio, con musica annessa, verso la mezzanotte e mezza, rendendo di fatto vano il cartello “Pool for paying guests only”. 
Il tempo di romperci le palle a sufficienza e decidono di andarsene. Ci risvegliamo all’alba, doccia e si parte, destinazione est. 
Dopo circa 200Km arriviamo a Mt. Isa, il più importante centro economico e amministrativo del nord-ovest del Queensland, quasi 20mila abitanti e nemmeno un supermarket aperto di domenica mattina. Il luogo deve la sua fortuna alle colline circostanti ricche di argento. Troviamo un Autobarn e troviamo finalmente il mini condizionatore per auto. Sborsiamo la bellezza di 85$ per averlo ma ci rendiamo conto da subito di quanto sia inutile. Ci fermiamo quindi al centro informazioni turistiche “Outback at Isa”, approfittiamo dell’aria condizionata e facciamo incetta di brochure informative sullo Stato. 
Ripartiamo che è quasi ora di pranzo. Il paesaggio cambia e diventa meno monotono. Per circa 60-70 km attraversiamo colline e la strada si fa un po’ più ondulata rispetto ai lunghissimi rettilinei che da Port Augusta in poi ci hanno fatto compagnia. Poi si torna in pianura e tutto torna come prima.
Passiamo Cloncurry, arriviamo a Julie Creek e riforniamo acqua e gas. Ogni sosta è una tortura a causa delle decine di mosche che subito ti assalgono e ti si attaccano sul viso, sugli occhi, sul naso, sulle labbra.
Da Julie Creek in poi troviamo la strada piena di cavallette e il muso del van comincia a diventarne un cimitero. Arriviamo a Richmond e sfruttiamo le docce gratuite dei bagni del lago. Ovviamente le mosche sono lì ad aspettarci. Prepariamo alcuni panini col tonno e ripartiamo. 
Abbiamo già percorso oltre 500km, ma manca ancora parecchio al tramonto e non vogliamo fermarci. Il viaggio sta di fatto diventando una fuga dall’outback verso la costa, verso l’oceano. Abbiamo davvero bisogno di un po’ di respiro, di un po’ di tregua dal caldo soffocante e dagli insetti. Iniziamo a fantasticare su quando arriveremo nuovamente ad una temperatura ragionevole e a quando non dovremo più preoccuparci di esaminare i bagni prima di entrarci, manco fossimo C.S.I. scena del crimine. Passiamo anche Hughenden che si sta facendo buio e continuiamo. 

Arriviamo a Prairie verso le otto e decidiamo di fermarci per la notte. 
Parcheggiamo nel primo e unico pub del villaggio e ci viene incontro Mike, un signore sulla settantina, lunga barba bianca e maglia rossa. Ci chiede se è nostra intenzione rimanere per la notte e ci dice di entrare a chiedere al proprietario del posto. 

Entriamo e troviamo Tom dietro al bancone in legno; età tra i 50 e i 60 anni, testa rasata, occhi azzurri, corporatura robusta. Ci spiega che ora nel campground c’è il bufalo ma possiamo tranquillamente stare gratuitamente fuori dalla recinzione, in maniera tale da evitare incontri troppo ravvicinati. Ordiniamo una birra e una coca e ci accomodiamo negli sgabelli. All’interno del pub, oltre a noi due e Tom ci fanno compagnia due ragazze manichino in blue jeans, una seduta su una sedia da barbiere, l’altra in piedi a farle compagnia. Attorno cimeli di ogni tipo ed epoca. Decine e decine di cappelli in pelle sul soffitto e ai muri, manifesti d’epoca della Shell, una vespa del 1956 (come ha modo di dirmi Tom), alcune cavallette su alcune mensole e sopra il frigo. Nell’angolo opposto all’entrata il biliardo con sopra alcuni manifesti di film. Pare che sia così da parecchio. La parete all’entrata è occupata da una grossa lavagna dedicata ai commenti degli ospiti del pub, che aspetta di essere compilata il prima possibile. Il guests book è aperto in una pagina bianca, altrettanto voglioso di ospiti pronti a imprimere per sempre il proprio nome, che farà sapere a chissà chi che sono passati di qua. Le pareti in legno, il pavimento in parquet, le botti su un lato, le mensole con le cianfrusaglie, i ventilatori a soffitto, rendono l’ambiente ancora più rustico, australiano e accogliente allo stesso tempo. 
Fuori dal pub, assieme a Mike, un ragazzo sulla trentina, cappello da cowboy con sopra poggiati gli occhiali da sole, camicia azzurra e blue jeans strappati per usura e non per moda. 
Usciamo e i due attaccano bottone. Ci sediamo con loro e dopo un po’ si unisce anche Tom, che però pare più interessato al film in televisione che ai discorsi. 
Ci chiedono chi siamo e come mai siamo finiti lì a Prairie e spieghiamo il nostro viaggio. Attorno al tavolo le immancabili cavallette. I tipi ci mettono poco ad intuire la paura di Fra e il mio disagio per la loro presenza. Tom entra dentro e riesce con in mano un notevole esemplare colore verde. Fra scappa. Tutti al tavolo ridono e continuano a bere. Il ragazzo sulla trentina mi offre un bicchiere di vino e nel mentre continuiamo a parlare. Si chiama Kirby e fa il mandriano. Tra una chiacchiera e l’altra continua a ordinare da bere per entrambi, rum e cola. 
Dall’altra parte della strada arriva un camion, parcheggia, l’autista scende e si unisce al gruppo: l’accento più atroce incontrato sinora. Siamo tutti seduti attorno ad un tavolo in legno, sgabelli alti attorno, soffitto del loggiato (rigorosamente in legno) che ospita un numero sconosciuto di cavallette. Fra rimane in piedi in posizione ‘’fuga’’, controllandosi costantemente il corpo per verificare di non avere nulla, e allo stesso tempo buttando uno sguardo attorno per prevedere eventuali salti. I discorsi al tavolo sono svariati, ma rimane il problema che siamo due italiani e quattro australiani. Più le quantità di alcol aumentano nel sangue, più il già incomprensibile australiano dell’outback si fa strascicato.
Kirby mi dice con orgoglio “We feed Australia”, noi sfamiamo l’Australia, e a giudicare dal numero di mucche incontrate lungo il tragitto non stentiamo a credergli. Si offre di farci vivere a pieno l’esperienza dell’outback, l’indomani deve fare dei lavori poco lontano dal pub, dove ha alcune decine di mucche e poi trasportarle verso casa sua. All’inizio titubiamo, poi il suo entusiasmo ci spinge ad accettare. 
La serata continua a svelarci i segreti e forse anche un po’ il fascino di quell’outback dal quale poco prima stavamo scappando. Tom ci mostra l’album di foto del pub come fosse un album di famiglia. Davanti ai nostri occhi scorrono le immagini di una Prairie poco più vecchia, forse 20 o 30 anni fa. Solo le poche decine di metri davanti alle case e al pub erano asfaltate. Oltre, da una parte e dall’altra, l’highway continuava come dirt road, strada bianca (anche se rossa rende meglio l’idea).
Continuano le foto: serpenti catturati, un’invasione di locuste, un canguro ricoperto di fango durante un’alluvione.
Tom ad un certo punto scatta dal tavolo verso qualcosa che ancora non abbiamo visto, si inchina e torna poggiando il contenuto della propria caccia sul tavolo: una rana verde comincia a bazzicare tra i nostri bicchieri, tra le bottiglie, si arrampica sulle braccia di Mike che lascia fare. Poi con un balzo torna a terra e sparisce nella notte australiana.

Diciamo di essere sempre stati incuriositi dai camion col muso, che da noi non esistono. L’autista ci indica la cabina e ci dice di andare a vedere, di curiosare. Saliamo i quattro scalini della cabina e ci ritroviamo nella ‘’seconda casa’’ dei ‘’truck driver’’ australiani. Lo spazio dentro è enorme, decine di luci e manette, la strada appare quasi lontana da lassù. Un letto da una piazza e mezzo, cianfrusaglie e polvere. 
Torniamo al tavolo e Mike ci prende sottobraccio e ci porta poco lontano dalla luce per indicarci le stelle, ci spiega qual è la Southern Cross, ci dice che indica sempre il sud e se sappiamo riconoscerla non ci possiamo perdere. 
Ci racconta del suo viaggio in Argentina per un incontro di rugby, si indica lo stemma sul petto, la maglia ricordo di quell’esperienza. 
Tom ancora non riesce a capacitarsi della fobia di Fra delle cavallette e non riesce a fare a meno di perseguitarla; con nonchalance entra dentro e ne prende una sui 10 cm, da chissà quale mensola del bar. Si avvicina a Fra, che però fugge come se non ci fosse un domani, pregandolo in tutti i modi di non accorciare le distanze; ma il posto è un campo minato, e allontanarsi da una, significa avvicinarsi ad un’altra cavalletta. Decidiamo di fare una foto tutti assieme: treppiede e camera in posizione, tutti in posa dietro al tavolo. Click. Tom, alla sinistra di Fra, solleva la sua mano da sotto al tavolo. Ha l’ennesima cavalletta. Fra fa un salto con urlo annesso e si allontana dal tavolo. La foto racconta quell’attimo, attraverso il sorriso di Fra per lo scatto, e i suoi occhi che hanno appena identificato la cavalletta a 10 cm da lei. 
Torniamo al tavolo. Tom prende la sua moto, un Harley, e scompare.
Kirby ci dice con orgoglio “This is the heart and the soul of Australia” e ancora una volta non stentiamo a credergli. Ci dà appuntamento per l’indomani mattina alle sette davanti al pub.
Tom torna con un lenzuolo nero all’interno del quale pare che ci sia una palla. Lo poggia sul tavolo e lo scopre. All’interno una boccia di vetro con un serpente giallo, perfettamente conservato. E’ andato a casa sua a prenderlo perché ci teneva a farcelo vedere. Prende dalle tasche un piccolo contenitore dal quale estrae due fossili di granchio. Dice che sono vecchi di duecento milioni di anni. Se ciò sia vero e come lui ne sia entrato in possesso non è dato saperlo. Mi dice di chiudere gli occhi e di tenere la mano aperta verso l’alto. Fra mi dice che nel caso in cui ci sia qualcosa di vivo mi avvisa. Mi dice di seguire con l’immaginazione il suo racconto. Mi ritrovo sulla costa del New South Wales, cento milioni di anni fa, a osservare l’oceano e gli pterodattili che volano sopra la mia testa. A un certo punto una pietra cade nella mia mano, apro gli occhi e la osservo. Uno pterodattilo mi ha appena cagato in mano. Tom mi spiega che quella pietra è un fossile di merda di dinosauro. Ancora una volta le circostanze di come e quando e perché non le sappiamo. 
Andiamo a dormire ma siamo ancora attoniti per la stranezza della serata.

Ci svegliamo all’alba e andiamo verso il pub. Le mosche e le cavallette sono già al loro posto, come sempre. Mike ci saluta, ha dormito lì. I due manichini anche. Decidiamo di regalare a Tom una bottiglia del nostro ragù. La sera prima ci ha detto che va pazzo per la pasta. La cosa lo rende particolarmente entusiasta. Ci dice che regalare del cibo è una cosa fantastica e che ormai nessuno lo fa più. Ci chiede cosa prendiamo per colazione, ordiniamo due te caldi e 3 minuti dopo sono già pronti. Gli chiediamo quanto gli dobbiamo, ci dice “nothing” e indica la bottiglia di sugo.
Ci dice di affrettarci che Kirby è già all’opera. Finiamo il te e ci mostra la strada per raggiungerlo. Arriviamo e lo vediamo all’opera, stessa camicia, stesso cappello con gli occhiali da sole in cima, stessi jeans. Sta spostando le proprie mucche da un recinto all’altro, facendole prima passare per una vasca; confessiamo la nostra ignoranza in merito. Dopo un po’ ci chiama e ci fa entrare nel recinto. Ci lascia spostare alcune decine di mucche anche a noi. All’inizio non riusciamo e le facciamo scappare dalla parte opposta, poi capiamo il meccanismo e riusciamo nel compito. Lui intanto se la ride. Ci parla di un ipotetico giro in elicottero, ma non capiamo a cosa si riferisce. Alle 9 arriva Ben con il suo camion. Le mucche vengono incanalate in un passaggio più stretto e nel giro di pochi minuti sono tutte sopra.
Fra va col camion, io sto dietro a poca distanza con Kirby. Mi spiega che le sta portando a casa sua. Gli chiedo se sia lontano e mi dice di no, che è poco distante.
Gli chiedo se è mai stato all’estero. Mi dice che è stato un anno in Canada, poi ha vissuto a Londra, ma è stato come turista anche in Sud Africa e in Egitto. Fra invece mi racconta di aver chiacchierato con Ben, l’autista e che ha avuto modo di capire meglio come sia la sua vita quotidiana nel cuore del Queensland. Ben è felice di vivere nella pace e tranquillità delle campagne desolate di Prairie; è felice di non vivere in città, perchè, come spiega, noi non riusciamo ad abituarci agli insetti, come lui non potrebbe mai farlo delle persone. Ben risponde alle domande curiose di Fra, e ne fa altrettante a lei per scambiare piccoli frammenti delle proprie esperienze. Ben spiega che a Prairie c’è la scuola elementare ed è composta da pochissimi bambini; racconta poi con normalità che, non essendoci un ospedale, le persone vengono caricate sugli elicotteri nel caso di emergenza. Prairie è come una famiglia e Ben non sarebbe mai in grado di fidarsi delle persone in una grande città.

Percorriamo 40 km di strada asfaltata tra mandrie di bestiame e billabong, termine usato per indicare le pozze d’acqua stagnante. Il terreno è arido, sabbioso. Poi deviamo verso destra ed entriamo in una dirt road. Continuiamo per altre 30, forse 40 km. Superiamo alcune sbarre e mi dice che quelle indicano l’accesso al suo possedimento. Superiamo una collinetta e davanti ai nostri occhi si apre una vallata verdeggiante. Mi spiega che tutto quello che vedo, sino ad alcune colline che si vedono a parecchi chilometri di distanza, è suo. Da un lato e dall’altro della strada decine e decine di bovini lasciati liberi a pascolare lungo la valle. Arriviamo a casa sua, l’unica casa nel giro di decine di chilometri e vediamo un elicottero decollare. Gli chiedo se lo sa guidare e mi dice di no. Mi spiega che l’elicottero è l’unico modo che hanno per controllare e per spostare le mandrie da un posto all’altro. A casa sua ci offre da bere e da mangiare, poi ci porta in giro col suo 4x4. Incontriamo suo fratello intento a spostare una piccola mandria a bordo di una moto da cross. Vediamo piccoli fiumi, pozze d’acqua con decine di bovini attorno, oppure all’ombra degli alberi bassi e radi, per alcuni aspetti sembra di essere all’interno di un documentario. Ci spiega che possiede tra le 2000 e le 2400 mucche. Fra chiede se ognuna di questa ha un nome, lui ci guarda e si mette a ridere. Torniamo verso casa sua, ci chiede se vogliamo rimanere ancora o se vogliamo tornare al pub. Decidiamo di tornare. Lui pare un po’ dispiaciuto ma capisce. Lo abbracciamo e scambiamo il contatto Facebook, lo invitiamo a venire a trovarci in Sardegna, e non escludiamo lo possa fare davvero un giorno. Risaliamo in camion con Ben e diamo un ultimo saluto a quella valle, forse anche a Kirby, alla sua famiglia e alle sue mucche. Ripercorriamo gli ottanta km che ci separano dal van, a Prairie, 40, forse 50 abitanti, il posto abitato più vicino. Arriviamo e i manichini hanno deciso di approfittare della giornata piacevole per sedersi fuori. Una legge il giornale, l’altra in piedi sorseggia un caffè. Tom ci chiede se abbiamo pensato ci fosse realmente qualcuno arrivando da lontano. Effettivamente si, glielo diciamo e lui pare contento. Lo salutiamo, lo ringraziamo. Lui ci dice che il sugo era ottimo. Ripartiamo, lui si sbraccia e ci fermiamo, ci dice che il vetro è lercio e lo è davvero, spruzza un po’ d’acqua e con la mano pulisce i resti delle cavallette del giorno prima. 
Difficile dimenticare la notte appena trascorsa e questa mattinata; tutto è impresso nella mente grazie ai ricordi, le sensazioni, le foto… La cicatrice. Si, la cicatrice. Quella che mi uscirà a breve dal graffio delle unghie di Fra sul mio braccio, quando ha tentato di scappare dall’ennesima cavalletta. 
Stavamo cercando di scappare e ci siamo finiti dentro sino al collo, nella parte più dura, più selvaggia dell’Australia. Forse era questo che ci spaventava. L’outback non ha compromessi, è polvere, sudore e cavallette, ma ha un pregio inestimabile, è sincero, sino all’osso. E la sua durezza, la sua bruttezza te la mette sul piatto da subito, non la nasconde. Dritta in faccia, come il sole cocente, come le mosche. Il cuore e l’anima dell’Australia. 

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