Melbourne

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sabato 28 febbraio 2015

GIORNO 24 - IL SURF E LE TARTARUGHE

GIORNO: 27/02/15
STATO: QUEENSLAND
KM GIORNALIERI: 191
PARTITI DA: Agnes Water 
ARRIVATI A: Bundaberg

Lorenzo arriva al campeggio alle 09:40 con il suo fuoristrada e il carrello delle tavole da surf tutte impilate. Sarà lui oggi, a farci la nostra prima lezione. Oltre a noi due, altri 8 ragazzi prendono posto sul Land Cruiser. Alcuni sono canadesi, parecchi sono europei. Lorenzo ha origini italiane, siciliane più precisamente, ma dice di capire qualcosa se parliamo piano e ogni tanto richiama la nostra attenzione urlando ‘’Forza Italia!’’. Il padre, appassionato di Ferrari, lo avrebbe voluto chiamare Dino, ma “Thank God” poi ha deciso di dargli Lorenzo.
Si dimostra già da subito un ragazzo molto simpatico, scherzoso e che ci sa fare con i ragazzi.
Ci spiega che il posto lì vicino si chiama 1770 perché siccome tutte le donne fanno surf dimostrano 17 anni dietro e 70 davanti.
Dopo una decina di minuti di bruschi spostamenti e qualche colpo tra noi, futuri surfisti, arriviamo in spiaggia. Lorenzo distribuisce a tutti delle maglie rosse che lo aiuteranno a distinguerci una volta in acqua e che ci proteggeranno anche dal sole. Ci suggerisce, con un accenno di imposizione, di metterci la crema solare ovunque, in quanto passeremo 3 ore, le più cocenti, sotto il sole. Ognuno di noi deve portare la propria tavola fino alla spiaggia, passando per la passerella in legno che la collega al parcheggio. La tavola è grande e pesante perchè per iniziare si ha bisogno ovviamente di una superficie maggiore su cui esercitarsi a mantenere l’equilibrio e a fare i giusti movimenti. A noi Lorenzo consiglia di trasportarle entrambe assieme, mettendoci le tavole sotto le braccia, uno davanti a reggerne un’estremità, l’altro dietro nella parte finale. Siamo di fronte alla riva, ma ancora non sappiamo cosa dobbiamo fare e dove. L’istruttore guarda concentrato il mare e non dice niente. Una ragazza prova timidamente a chiedergli cosa stiamo aspettando e lui risponde dicendole che sta valutando cosa fare e dove andare. Lei indica alcune onde poco più in là, lui ridendo le chiede se ha davvero intenzione di surfare in mezzo alle rocce. Ci indica un albero a 200 metri a destra e ci dice di caricare nuovamente le tavole e raggiungerlo.
Le tavole vengono disposte tutte e dieci parallele sulla sabbia umida della riva e noi in semicerchio attorno a Lorenzo, che ascoltiamo concentrati i primi consigli. 
Si corica, pancia a terra davanti a noi e ci spiega i movimenti. Ci dice da subito che la parte difficile non è stare in piedi sulla tavola ma beccare l’onda giusta. 
Pancia sulla tavola e “paddle paddle paddle!!!” - remare, remare, remare. I piedi devono stare appena fuori dalla coda per bilanciare meglio il peso e ancora “paddle paddle paddle!!!”.
Com’era facilmente intuibile per girare la tavola un braccio rema da una parte e l’altro in direzione contraria e poi si aspetta l’onda.
Appena pensiamo di aver individuato l’onda da cavalcare “paddle paddle paddle!!!”, quando sentiamo che l’onda ci ha preso e ci sta spingendo e pensiamo di doverci issare in piedi ancora “paddle paddle paddle!!! 4 more times!!” e solo allora ruotare leggermente il bacino, fare leva sul piede d’appoggio e tirarsi su.
Ora tocca a noi metterci pancia a terra, sulla tavola poggiata sulla sabbia e provare. Ci fa provare prima tutti assieme. “Paddle paddle paddle!!!” e chili di sabbia cominciano a volare alle nostre spalle, arriva l’onda “paddle paddle paddle!!!” ancora “paddle paddle paddle!!!” e ci issiamo tutti sulla nostra tavola a cavalcare la nostra onda immaginaria.
Ci fa riprovare uno per volta e ci corregge gli errori di impostazione o di movimento.
Ci spiega alcuni gesti per comunicare tra di noi senza sprecare fiato utile al remare e ci spiega il “Titanic” manovra con la quale richiamiamo il suo aiuto. Si tratta di posizionarsi in ginocchio sulla tavola, aprire le braccia e urlare “Don’t let me go, Jack!” 
Due ragazzi che già hanno preso parte alla lezione il giorno precedente sono autorizzati a entrare in acqua da subito. Lorenzo li guarda e si mette a ridere perché i ragazzi sono entrati dritti in acqua dal punto in cui ci trovavamo senza valutare il fatto che in quel punto la spiaggia curvava e quindi sarebbero potuti arrivare alle onde passeggiando invece di faticare per trasportare la tavola per 50m dentro l’acqua. 
Ci da quindi le ultime direttive e ci dice di entrare in acqua. Uno per uno prendiamo la nostra tavola e lo seguiamo. Uno per volta ci guida e ci spiega il modo per prendere l’onda. La prima volta ci sta a fianco e ci spinge non appena l’onda ci è alle spalle. Sentiamo la spinta e “paddle paddle paddle!!!”.
Dalle volte dopo siamo noi a dover individuare il momento preciso in cui darci la spinta iniziale. Capita quindi che iniziamo a remare troppo presto o troppo tardi e l’onda la perdiamo, o non riusciamo a sfruttarne la spinta.
E capiamo tutti, sin da subito, che Lorenzo aveva ragione. Stare in piedi, sulle nostre lunghe tavole, è facile. Per tornare un po’ al largo a cercare l’onda giusta invece si fa una fatica immane.
Entrambi riusciamo a tirarci su al primo tentativo. Andiamo avanti per 10, forse 15 metri, poi esauritasi la forza dell’onda ci lasciamo andare e riprendiamo la nostra tavola.
E continuiamo così per tutta la mattinata. “Paddle paddle paddle!!!”. Impazienti di riprovare l’ebbrezza di stare in piedi sulla tavola e di cavalcare l’onda la finiamo a prendere un sacco di onde brutte e inconsistenti ed a prenderci in faccia, nel tentativo di tornare indietro, quelle davvero decenti. Il mare non è grosso, le onde saranno di massimo un metro e mezzo, ma attorno a noi vediamo tanti surfisti esperti che si divertono, con tavole lunghe forse la metà della nostra, molto più reattive e instabili. Prendono l’onda sulla cresta, la attraversano per tutta la lunghezza, girano la tavola di nuovo verso l’onda per cercare di sfruttarne le ultime forze di spinta. Noi continuiamo a prendere acqua in faccia e qualche piccola soddisfazione. Proviamo entrambi una tavola leggermente più piccola, ci rendiamo conto della differenza, ma capiamo anche quanto sia più soddisfacente usarla.
Dopo tre ore siamo tutti sfiancati. Usciamo dall’acqua e ci guardiamo. I corpi di tutto il gruppo sono pieni di graffi e abrasioni procurati contro la tavola. I lividi usciranno il giorno dopo. Tutti quanti siamo estremamente contenti della mattinata. Lorenzo ci fa i complimenti e ci indica le tavole. Sono da riportare su verso la macchina, alcune centinaia di metri sulla sabbia e poi in salita. 
Carichiamo le tavole e riprendiamo lo sterrato e poi la strada verso il nostro campeggio. 
Ci dice che le foto fatte con la GoPro verranno caricate l’indomani sulla pagina Facebook, di prenderle pure. Lo salutiamo e corriamo verso le docce. Siamo stanchi e ci sentiamo sporchi. La doccia aiuta, il piattone di pasta Barilla al sugo coi funghi anche.
Ci ristabiliamo e ripartiamo, direzione Bundaberg, un centinaio di chilometri più a sud, località famosa perché in una delle sue spiagge si recano le tartarughe marine per deporre le uova. 
Come suggerisce la brochure informativa online, alle 19:00 siamo davanti alla struttura che gestisce l’ingresso alla spiaggia delle tartarughe. Il parcheggio è pieno e la fila all’ingresso pure. Capiamo fin da subito di non essere in vantaggio, essendo che tutti hanno già prenotato a differenza nostra. Una guida ci dice di attendere ad un lato della fila e così facciamo. Le zanzare ci stanno divorando e il tempo passa e nessuno ci da delle informazioni. Dopo 20 minuti, la situazione migliora; capiamo che le persone sono divise in gruppi e noi, dopo aver fatto il biglietto, veniamo inseriti nel gruppo 5, ossia l’ultimo. La guida spiega come, essendo che stiamo andando ad osservare degli animali in natura, non ci sono tempi o orari precisi e che quindi non si sa quando sarà il nostro turno. E in effetti ci sarà tanto da aspettare. Per smorzare l’attesa, ci invitano a sederci in un anfiteatro all’aperto a guardare dei video riguardanti le tartarughe e il lavoro che c’è dietro alla conservazione della specie e alla limitazione dei danni causati dall’uomo. Tutto molto interessante ed educativo, se non fosse che l’audio non supera la qualità di un tubo di Pringles usato come cassa. Sono le 21:00 ed è il turno del gruppo 4; per noi è invece ora di cenare e con soli 6 dollari ci concediamo due belle porzioni di patatine fritte della paninoteca ambulante di fianco. Passa mezz’ora ed è il nostro turno. Veniamo raggruppati davanti alla passerella che ci porterà in spiaggia e ci vengono ricordate le regole più importanti: non utilizzare fotocamere se non nei punti consentiti, stessa regola per torce o luci di qualsiasi tipologia. 
La guida davanti a noi, si fa strada sulla sabbia con una torcia e con attenzione verifica che non vi siano tartarughe nel percorso. Ci spiega che ci stiamo recando a vedere una nidiata di tartarughe, in una duna di sabbia a qualche decina di metri più avanti. Nella sabbia, notiamo le tracce delle tartarughe che abbiamo visto il giorno prima anche a Lady Musgrave Island; impronte che vanno dalla riva verso le dune di fronte, a 20 metri di distanza. La spiaggia è illuminata esclusivamente dalla luna e dalla luce soffusa del caschetto della guida. 
Ci posizioniamo tutti intorno ad un piccolo spazio di sabbia tra l’erba della collinetta e osserviamo l’unico punto illuminato dalla torcia, un’area di 30-40 cm di diametro che ospita qualcosa di ancora poco chiaro. Ma al persistere della luce, qualcosa inizia a muoversi. Piano piano ci rendiamo conto che davanti ai nostri occhi, si muovono sempre più velocemente decine e decine di minuscole tartarughe, che sicuramente non conoscono la differenza tra luce artificiale e naturale. Dopo pochi minuti, anche quelle che sonnecchiavano sotto la sabbia più in profondità, escono e seguono in una fila disordinata, quelle a capo della fila. Ma non sono ancora finite: la guida, ormai esperta, infila la mano nella sabbia e gentilmente rastrella con le dita, alla ricerca di qualche tartaruga forse troppo in profondità. Ne trova solamente una, che accompagna gentilmente lungo il ‘’giusto percorso’’. Ma nelle nostre menti frullano diverse perplessità: cosa stiamo facendo? Perchè stiamo facendo muovere le tartarughe artificialmente e non le lasciamo al loro percorso naturale? 
Ci viene spiegato che, le tartarughe adulte dopo la covata, abbandonano la nidiata al proprio destino. I piccoli dovranno poi arrangiarsi da soli a trovare la strada verso il mare e a cavarsela da soli per sopravvivere. In realtà solamente una su cento riuscirà a raggiungere l’età adulta. 
Il ‘’compito’’ delle biologhe è quello di indirizzare i piccoli verso il mare, facendoli arrivare tutti a riva, creando loro un percorso di luce artificiale dal nido all’acqua. 
Ma ancora le spiegazioni non ci soddisfano e siamo ancora perplessi sul fatto che l’uomo stia intaccando delle fasi naturali della vita di un altro essere vivente, magari alterandone il percorso. 
Così, mentre ci spostiamo dalla duna verso la riva, a una decina di metri dall’acqua, approfittiamo per chiedere spiegazioni alla guida. La ragazza ci rassicura confermando che tutto quello che stiamo vedendo non è in nessun modo dannoso per le tartarughe, né va ad alterarne il ciclo vitale; si tratta diciamo di un piccolo aiuto che va a ridurre le difficoltà che le piccole tartarughe troveranno nel loro lungo viaggio. In realtà attraversare la spiaggia è la parte più semplice del loro percorso, che inizierà a farsi duro una volta che entreranno in mare. 
Sulla sabbia, vengono tracciate due righe andando a formare un percorso. Ad un’estremità, la biologa e il centinaio di piccole tartarughe, dall’altra il mare. Ancora una volta, un percorso di luci sarà la guida che le farà camminare da una parte all’altra. Per coinvolgere il pubblico, le guide prelevano 7-8 persone dotate di una torcia e le dispongono al centro del percorso con le gambe divaricate. Non approviamo tutto questo show, che non fa altro che alimentare i dubbi dell’intero processo, ma osserviamo in ogni caso cosa succede. Le piccole tartarughe, attirate ancora una volta dalla luce, iniziano la loro corsa verso la libertà, verso l’inizio della loro vita marina. La prima della fila, sembra quasi avere fretta e si distanzia dalle altre. All’altro capo della coda, c’è invece la più lenta, quella con meno sprint, quella che di arrivare in acqua non ne vuol sentire. Ma il mare è anche il suo di destino e anche se è l’ultima ruota del carro, anche lei dopo una manciata di minuti, viene risucchiata dalle onde. Veniamo quindi riaccompagnati verso il centro informazioni da cui eravamo partiti. Un centinaio di metri più in là la guida ci impone di fermarci. Alcune tartarughine provenienti da chissà quale nidiata stanno attraversando davanti a noi. Aspettiamo che l’attraversamento sia completato e riprendiamo la strada. Torniamo al van non prima di aver ammirato un ragno enorme nel bagno degli uomini. Percorriamo i 40 km che ci separano dall’area di sosta. E’ stata una lunga giornata e ci addormentiamo immediatamente.


GIORNO 23 - LADY MUSGRAVE AND THE OUTER REEF

GIORNO: 26/02/15 
STATO: QUEENSLAND
KM GIORNALIERI: 0
PARTITI DA: Agnes Water 
ARRIVATI A: Lady Musgrave

La sveglia per andare sull’atollo è alle 6 e mezza. Ci prepariamo e andiamo al porticciolo, a pochi chilometri da Agnes Water, più precisamente a 1770 (il nome della località è davvero un numero). 
Arriviamo e consegniamo i fogli compilati all’istruttore di scuba diving. Pochi minuti dopo siamo tutti sulla “Spirit of 1770” pronti a lasciare il porto. Ci incuriosiscono i numerosi sacchetti per il vomito presenti un po’ ovunque sull’imbarcazione. 
I membri dell’equipaggio ci mostrano le procedure di sicurezza come fossimo su un aereo e si sincerano che abbiamo capito il modo in cui vadano chiusi i sacchetti per il vomito.
Il motivo appare chiaro non appena lasciamo il porto. Le correnti in quel tratto di Oceano sono fortissime e le onde alte. A ciò si aggiunge il fatto che stiamo andando contro la corrente. Un saliscendi continuo e violento che inizialmente ci diverte anche, dopo 10-15 inizia a stancarci. Siamo seduti a poppa, in uno spazio ricavato tra la sala interna e i motori. Almeno siamo all’aria aperta. Da dove è seduta, Fra vede bene l’interno e vede il personale dell’equipaggio iniziare a girare per raccogliere i sacchetti non più vuoti come alla partenza. 
Prendiamo l’action camera per filmare la scena, ma non appena proviamo a schiacciare il tasto rec ci rendiamo conto che qualcosa non quadra: ci siamo dimenticati la SD card; stiamo andando a fare sub in uno dei fondali più belli del mondo, in una delle “sette meraviglie moderne” come ha modo di ricordarci il capitano e non abbiamo nemmeno modo di farci una foto ricordo.
Continuiamo a maledirci per qualche minuto poi torniamo calmi, o meglio agitati dall’oceano.
Dopo un’ora di centrifuga non resisto più e approfitto del bagno di fronte a me per liberarmi dalla colazione. Riesco a centrare abbastanza bene il gabinetto, ringrazio il fatto che il bagno sia strettissimo perché anche così non faccio altro che sbattere da una parte all’altra, desisto dal proposito di fare pipì e torno a sedermi. Fra invece resiste abbastanza bene.
La lavatrice si spegne non appena entriamo nell’atollo, un’ora e mezza circa dopo la partenza dal porto. 
Lady Musgrave
Il colore dell’acqua attorno a noi cambia repentinamente dal blu al celeste vivo alternato a delle enormi macchie che si ergono dal fondale sino ad arrivare quasi alla superficie: coralli.
Siamo arrivati a Lady Musgrave, nella barriera corallina esterna, l’ ‘’outer reef’’ a circa 65 km dalla costa continentale. L’isola venne scoperta nel 1803 e sul finire del XIX venne utilizzata come miniera di guano. Qualche “illuminato” provò a far funzionare un resort di lusso negli anni 30, operazione miseramente e fortunatamente fallita. Oggi di quel resort non rimane nulla e l’isola è ricoperta dalla vegetazione che forma un fitto bosco. L’unica intrusione umana è rappresentata dall’introduzione di uccelli simili a quaglie da parte dei minatori di guano che evidentemente si erano stancati di una dieta basata esclusivamente sul pesce.
All’interno dell’atollo la compagnia organizzatrice dispone di un piccolo pontile al quale abbiamo immediatamente attraccato. Siamo quindi stati smistati in diversi gruppi e per prima cosa siamo stati portati a fare una passeggiata sull’isola. Appena sbarcati la prima sorpresa. Ad attenderci sulla spiaggia non c’è sabbia ma miliardi di frammenti di corallo e conchiglie di tutte le dimensioni: l’isola è di fatto parte stessa della barriera in quanto formata da un accumulo emerso di materiale corallino. La guida ci invita a raccogliere e analizzare il materiale che troviamo sotto ai piedi, ma ci pone il divieto categorico di intascarci qualsivoglia “reperto”. La consistenza e il suono dei coralli somiglia più al vetro che alla pietra vera e propria. 
L’isola è piena di uccelli di vario tipo e appare facile capire come mai fosse stata utilizzata in passato come fonte di guano.
Sbuchiamo nel lato opposto della foresta e torniamo al punto di partenza passeggiando sulla spiaggia. La guida ci mostra tracce fresche delle tartarughe marine che hanno percorso i pochi metri tra la riva e l’inizio della vegetazione per deporre le loro uova. 
A pochi metri dalla riva riusciamo a intravedere una razza che si muove sinuosa sott’acqua e una coppia di innocui squali toro. 
Veniamo quindi imbarcati su di una chiatta col fondo vetrato dove un’altra guida ha modo di portarci nei punti più interessanti dell’atollo e di permetterci di osservare in maniera nitida cosa si cela sotto il pelo dell’acqua. Ci si apre un mondo di animali, vegetazione e colori visti solo in qualche documentario. Avvistiamo anche alcune tartarughe che nuotano poco lontane: alcune a pelo d’acqua, con la testa e parte del guscio fuori; altre invece sono a pochi metri di profondità, nei pressi delle pareti di corallo.
Ci riportano sul pontile che è già ora di pranzo. Riempiamo il piatto e notiamo che il menù non è poi tanto diverso da quello della precedente escursione nella barriera. Ce ne facciamo una ragione e mangiamo comunque, anche abbastanza in fretta perché è ora di avventurarsi davvero sott’acqua.
Tartaruga - Lady Musgrave
Indossiamo le mute, scegliamo le pinne e la maschera da delle grandi vasche divise per taglia; l’istruttore di scuba diving ci spiega alcune basilari cose da sapere prima di tuffarci: linguaggio dei segni, utilizzo del regolatore, decompressione delle orecchie. 
Mancano solo la cintura con i pesi e la bombola e ci tuffiamo. Ci viene detto di mettere la testa sotto e di iniziare ad abituarci alla strana sensazione di poter inspirare nell’acqua. Sotto di noi e attorno vediamo mille pesci di tutte le forme e colori.
L’istruttore viene quindi da ciascuno di noi e ci chiede se è tutto ok. Tutti diciamo di si e allora comincia a farci scendere. Fa uscire l’aria dal giubbino sul quale è ancorata la bombola e a uno a uno scompariamo. In realtà siamo solo 2-3 metri sotto. Ci indica di appenderci a una corda e di continuare a respirare. Ma qualcosa non va. Non riesco, ho la sensazione di non avere più aria e inizio a respirare veloce, troppo veloce. In tre, quattro gambate sono di nuovo sopra. Tolgo il regolatore dalla bocca e respiro a pieni polmoni l’aria vera. L’istruttore mi raggiunge, mi chiede se è tutto ok. Gli spiego e mi dice di riprovare e di stare calmo. Riprovo. Niente. Sono ancora fuori a cercare quell’aria e quell’ossigeno che mi sembra di non poter avere alcuni metri più giù. L’istruttore mi raggiunge di nuovo, mi dice che gli altri sono pronti, gli faccio segno di andare. Mi dice di stare vicino al pontile. Fra mi raggiunge e mi chiede se è tutto ok. Le faccio segno di non preoccuparsi e di raggiungere gli altri. Metto la testa sotto, il regolatore in bocca e riprendo a respirare, a far capire al mio corpo che ha già l’aria di cui ha bisogno. Vedo il gruppetto scendere ancora un po’ e allontanarsi velocemente verso un banco di coralli. 
Io continuo a stare sotto. L’inspirazione comincia a sembrarmi più spontanea e naturale. Comincio a sentirmi uno stupido per non esserci riuscito, per aver sprecato l’occasione di vedere la barriera. Rimango sotto. Attorno a me decine di cinesi con le loro mascherine si tuffano e riemergono per prendere aria. Io sto sotto e continuo a respirare. Dopo circa una mezzora il gruppo torna.
L’istruttore mi chiede se è tutto ok. Faccio senno di sì con la testa. Mi dice che posso riprovare col gruppo dopo. Stavolta ce la devo fare. Sono rimasto sotto parecchi minuti e non ho avuto problemi. Fra mi spiega che posso togliere il regolatore ogni volta che voglio e la cosa mi facilita non poco. L’avere quel malloppo di cosa in bocca contribuisce in maniera importante a darmi la sensazione di soffocamento. Rivado sotto provo a toglierlo e rimetterlo in bocca. Tutto ok. 
Faccio il segno di ok all’istruttore che mi manda giù. Iniziamo a muoverci, ci avviciniamo al banco di coralli. I pesci sembrano non preoccuparsi della nostra presenza e nuotano a poche decine di centimetri da noi. Provare a descriverli sarebbe un’impresa improba e comunque inutile perché non troverei il modo di rendere per parole la meraviglia dell’ambiente. Coralli blu, coralli gialli, il cosiddetto “brain coral” per la sua caratteristica forma di cervello. Dalle ‘’pareti’’ di corallo, escono e rientrano i pesci, a loro agio tra i mille nascondigli della vegetazione; i raggi del sole filtrati dall’acqua, fanno brillare i colori delle fantasie a righe o a chiazze delle squame e rendono il fondale ancora più acceso e vivace. 
Tolgo il regolatore una volta, una seconda, poi sento di non averne più bisogno e mi preoccupo solo di guardarmi attorno e di godere a pieno della sensazione di essere sott’acqua. La mezzora passa troppo in fretta. L’istruttore ci fa segno di tornare al pontile.
Riemergo, Fra era rimasta in zona a fare snorkeling con la maschera e mi aveva seguito per un un po’. Sono rimasti alcuni minuti anche per me e ne approfitto. Tengo la maschera e le pinne e mi rituffo. 
Un quarto d’ora dopo siamo di nuovo a bordo della “Spirit of 1770” pronti a tornare a terra. Ci spiegano che il viaggio di rientro sarà molto più agevole dell’andata in quanto andremo con la corrente a favore. Inoltre notiamo subito che le onde si sono comunque calmate. 
Appena usciti dall’atollo alcuni delfini vengono a farci compagnia e a saltarci attorno sulla scia della barca. Rimangono con noi per alcuni minuti, poi scompaiono tra le onde.
Occupiamo il viaggio del rientro a riempirci di salatini e formaggio, arriviamo al porto che siamo pieni. Riprendiamo la via per l’ostello e decidiamo di starci una notte in più perché ormai sta per far buio e non abbiamo voglia di viaggiare. 
Durante la cena sentiamo un ragazzo accanto a noi parlare di surf. Scopriamo che è istruttore e che se vogliamo il giorno dopo possiamo andare a fare la nostra prima lezione. 
Ci prenotiamo, ci spiega i particolari e il fatto che verrà a prenderci direttamente all’accomodation. 
Ci diamo appuntamento per la mattina dopo e andiamo a letto stanchissimi ma una volta di più con la voglia di svegliarci presto l’indomani.

mercoledì 25 febbraio 2015

GIORNI 21-22 - ANCORA VERSO SUD

GIORNO: 24/02/15 - 25/02/15 
STATO: QUEENSLAND 
KM GIORNALIERI: 460 + 312 
PARTITI DA: Airlie Beach 
ARRIVATI A: Yaamba - Agnes Water 

Altri due giorni di solo viaggio. La costa est del Queensland è enorme, ma è pur vero che per lunghi tratti non ci sia un granché da fare. 
Partiamo piuttosto tardi da Airlie Beach e impostiamo il navigatore verso Mackay, dove spendiamo un’ora almeno ad usufruire gratuitamente dell’aria condizionata di un centro commerciale per poi parcheggiarci nell’ennesima piscina pubblica. Solamente l’intenzione di fare qualche centinaio di chilometri in più, ci spinge ad uscire dall’acqua. 
Mackay Lagoons

Arriviamo all’area di sosta verso le 8 che ormai è buio da un’ora. Non è sicuramente il posteggio migliore che abbiamo trovato: è tutto buio e i bagni sono fuori servizio, se non quello degli uomini che ha bisogno di un secchio d’acqua come scarico. 
Cena veloce con un panino e in compagnia di due gattini, ci addormentiamo senza problemi grazie alle frequenti fresche folate di vento. 
La dormita è stata diverse volte interrotta dai numerosi camion che sfrecciavano nella strada accanto, così come anche la mattina presto. Ormai non serve nemmeno più avere una sveglia, perché alle 7:30 di solito siamo svegli, così come oggi. 
La colazione prevede come al solito un panino alla marmellata per Gabriele e uno alla Nutella per me. Se invece abbiamo a disposizione la corrente elettrica, ci concediamo il the con i biscotti; ma non è il caso di oggi. 
Partiamo alla volta di Rockhampton alla ricerca di una doccia e un barbecue e magari anche di una piscina. A ora di pranzo arriviamo a destinazione, ma l’aria in città è strana: la piscina pubblica è chiusa, i giardini botanici pure e tutto intorno vediamo alberi interamente sradicati distesi a terra. Sono passati pochi giorni dal ciclone Marcia. Tanti sono gli operai che notiamo mentre stanno sistemando fili della corrente, giardini e quant’altro. Ci chiediamo come fosse Yeppoon, la città che per prima è stata colpita dal ciclone, prima che questo riducesse la sua intensità e colpisse anche Rockhampton. 
La città ha ben poco da offrirci, quindi preferiamo bloccare l’appetito con un pacco di patatine e rinviare il pranzo-merenda alla successiva città, Gladstone. In realtà quando ci arriviamo, ancora non abbiamo fame e motiviamo questa tappa fermandoci all’ufficio informazioni, cercando di capire qualcosa in più su un’eventuale tour nella barriera corallina. Scopriamo che di solito partono dal porto di una località chiamata 1770, a più di 100 km di distanza. 
Alle 17 passate arriviamo all’ennesimo ufficio informazioni, trovandolo già chiuso. Giochiamo la carta di andare direttamente al porto e per fortuna tutto è ancora aperto. Prenotiamo per l’indomani mattina, un ‘’day tour’’ che ci porterà in un’isola chiamata Lady Musgrave a circa 65 km dalla costa, dove ci concederemo circa 30 minuti di ‘’immersione’’ a soli 5 metri di profondità.


GIORNO 20 - THE WHITSUNDAYS ISLANDS



GIORNO: 23/02/15
STATO: QUEENSLAND
KM GIORNALIERI: 0
PARTITI DA: Airlie Beach
ARRIVATI A: Whitsundays Island

La sveglia di stamattina suona alle 06:00. Il sole è già caldo, in cielo ci sono poche nuvole e l’augurio è che la situazione non cambi e non ci rovini il tour. Siamo molto curiosi di vedere quest’isola e la spiaggia e il mare in generale, perchè sotto sotto, vogliamo confrontarlo con la Sardegna. Alle 07:45 siamo al porto, dove ci accoglie l’equipaggio; ci controlla i biglietti, conta i 25 passeggeri della ‘’Southern Cross’’ e ci guida verso la barca a vela. Prima di salire a bordo, la ragazza dell’equipaggio ci invita a mettere le scarpe dentro una grande sacca e così saliamo sul ponte tutti e 25 scalzi. Dopo aver compilato un po’ di fogli di autorizzazioni e dichiarazioni varie, ci accomodiamo, pronti a salpare. Per fortuna o purtroppo, oggi non c’è un filo di vento, quindi non avanzeremo con le vele ma bensì andremo a motore. 
Il capitano ci spiega che la barca è stata costruita a Perth e ha partecipato alla Coppa America nel 1976 prima di venire adibita a imbarcazione turistica. La forma dello scafo però testimonia il passato di barca da competizione, con la prua lunga e affusolata.
Tra il porto e la Whitsundays Island ci separano circa 3 ore di navigazione, durante le quali ci viene offerto uno spuntino (thè, biscotti e frutta), si chiacchiera, si osserva la costa. L’acqua per il momento non è chissà che, o meglio, è di un colore verde smeraldo molto intenso, che la rende quasi densa e compatta e non trasparente. La costa delle isole è rocciosa ma con degli alberi fini e alti e ogni tanto si scorge una spiaggetta. A farci compagnia durante tutta la tratta, ci sono tantissime farfalle colorate, che volano e planano affiancando la barca. Ogni tanto si incontra qualche catamarano e altre barche a vela, presumibilmente di tour organizzati come il nostro. 
Stiamo al largo di Whitsundays Island e ci viene spiegato che raggiungeremo la costa con un piccolo motoscafo, divisi in due gruppi. Ci viene consegnata anche una muta, che useremo una volta in spiaggia. Il motoscafo si parcheggia in quella che l’equipaggio ha chiamato ‘’Shitty Bay’’, ossia ‘’spiaggia merdosa’’ e in effetti non è delle migliori. Qua ci vengono riconsegnate le nostre calzature e la guida ci spiega cosa andremo a fare: attraverseremo un bosco con una passeggiata di circa 30 minuti prima di arrivare alla spiaggia, durante la quale ci affacceremo in due belvedere. A 5 minuti dal primo Lookout, ci attraversa il sentiero un’iguana, che però non ci da nemmeno il tempo di scattargli una fotografia. Il cartello indica che siamo a 50 metri dalla vista e all’ultima svolta ci rendiamo decisamente conto di essere arrivati. Davanti a noi, una distesa di sabbia bianca, con striature azzurre e celesti, tutto attorno il verde degli alberi che cade dritto sulla riva, lasciando poco spazio alla spiaggia. 
Whitehaven beach lookout
In mezzo all’acqua, talvolta è la sabbia ad avere la meglio e allora crea delle isolette sabbiose che piano piano sfumano sul celeste, quando si incontrano di nuovo con il mare. L’effetto dall’alto è pittoresco, è un quadro in cui l’artista si è divertito a giocare con i colori della tavolozza. 
Il cielo è un dettaglio non poco rilevante che con diverse sfumature di blu, aiuta il paesaggio ad essere ancora più mozzafiato. Ma vogliamo andare a metterci i piedi in quella sabbia e in quell’acqua; vogliamo passeggiare nella riva neanche fossimo i testimonial della dolce e gabbana. 
Un altro sentiero nella boscaglia, ci porta nella tanto attesa Whitehaven beach. Dalle dune di sabbia, ancora lontani dalla riva, l’effetto è quello che ci ha dato la vista dal belvedere, solamente ad altezza uomo. La sabbia è bianchissima e finissima, dobbiamo coprirci gli occhi perché il riflesso del sole rende tutta la superficie accecante. In mano abbiamo le nostre mute pronte ad essere indossate; dovrebbero proteggerci per il 90% dalle meduse, ma la guida, nel lookout ci dice di non averne avvistate tante. In realtà ce ne indica una ed è piuttosto grande e facilmente visibile, specialmente se si conta che si nota da un posto così in alto. 
Tutti e 25 non esistiamo ad indossare la muta subacquea e ad entrare in acqua.
Whitehaven beach
Notiamo subito che la nostra Sardegna non ha nulla da invidiare a questa spiaggia. E’ leggermente torbida e salatissima. Non riusciamo a vederci benissimo i piedi, se questo può essere un buon metodo di paragone. E’ il contesto a rendere speciale questo bagno. Paragoniamo la spiaggia un po’ a quella di Chia, ma concordiamo sul fatto che l’acqua stia sotto di qualche punto. Questo non vuol dire che tutte le spiagge siano così qua, sia chiaro, ma fino ad ora niente ci ha stupito per quanto riguarda il mare. 
Rimaniamo in ammollo per un bel po’, finché lo stomaco inizia a brontolare ed è infatti ora di tornare a bordo e farci stupire dal menù proposto.
Riconsegniamo le scarpe, saliamo sul motoscafo, torniamo a prendere posto all’interno della barca a vela. Il pranzo è a buffet e ci serviamo con insalata di riso (più o meno), pasta (se così la vogliamo chiamare) e altri cibi freddi. Mandiamo giù tutto in fretta per sentirlo buono, e intanto ascoltiamo le guide che ci spiegano la prossima tappa.
E’ l’una e andremo a fare un po’ di snorkeling. 
Whitehaven beach
Indossiamo nuovamente le mute, in due gruppi raggiungiamo con il gommone il largo di una spiaggetta e ci buttiamo in acqua con maschera e boccaglio. L’acqua purtroppo è un po’ torbida e non ci permette di avere una visione nitida del fondo, se non andando molto sotto. Cazzeggiamo un po’ nella speranza di scorgere qualcosa di interessante, ma poco e niente.
Risaliamo a bordo e questa volta ci attende una scorpacciata di melone, ananas e anguria tagliati a fette e tortini di cioccolato e cocco. Ci rimpinziamo ancora un po’ e ci rilassiamo al bordo della barca. Gabriele in realtà fa a tempo a rilassarsi per poco, perchè il capitano, un ragazzo sulla trentina, sta cercando due volontari per issare le vele e provare ad andare con il motore spento. Gabriele si offre volontario insieme ad un altro ragazzo. La scena vede i due baldi giovani che mettono tutte le loro forze sulla corda da tirare, e la vela che più o meno velocemente si apre e muove verso l’alto. Con la lingua fuori, entrambi riprendono posto. 
Il capitano spegne i motori e prova ad avanzare con la sola forza delle vele. Ci comunica che stiamo andando alla velocità di 2 nodi e di questo passo saremo al porto in 6 ore. 
Si può proprio dire che abbia issato le vele solo per farci provare l’ebbrezza della barca a vela, ma dopo 10 minuti in cui siamo quasi completamente fermi, riprendiamo ad andare a motore.
Alle 17:30 o poco più siamo di nuovo al porto. Siamo accaldati e appiccicosi e non ci pensiamo due volte a correre in piscina, dove restiamo fino a ora di cena. 



martedì 24 febbraio 2015

GIORNO 18-19 - POOLS POOLS POOLS

GIORNO: 21/02/15 - 22/02/15
STATO: QUEENSLAND
KM GIORNALIERI: 372 km + 298 km
PARTITI DA: Babinda 
ARRIVATI A: Townsville - Airlie Beach

Ogni tanto, nonostante siamo in vacanza, abbiamo bisogno di rigenerarci. Alcuni ci potranno anche mandare a quel paese, ma il fatto di non vivere in una casa da quasi 20 giorni, è pesante. Gli ultimi due giorni infatti, sono stati produttivi dal punto di vista del chilometraggio, poco da quello turistico. Il caldo umido non ci da tregua, il termometro segna 30 gradi ma la percepita è di 8-9 in più. Non si respira. A salvarci sono le continue piscine gratuite. Anche Townsville ci regala un prato verde, dei barbecue con cui pranzare e una distesa d’acqua ‘’medusa-free’’. 
Le giornate di pausa servono anche a dare nuovamente un ordine al van, a partire dal ‘’cesto della roba sporca’’, una riordinata alla ‘’cucina’’ e alla ‘’camera da letto’’, con tanto di cambio di lenzuola. 
Ma tempo di fare tutte queste cose e già si suda nuovamente. Ci spostiamo. Ci spostiamo da una piscina all’altra. Purtroppo la seconda piscina chiude alle 8:30 e noi siamo arrivati per gli ultimi 15 minuti. Notiamo tra l’altro con stupore come, nonostante la piscina sia totalmente priva di cancelli e/o ringhiere, al richiamo della guardia riguardo la ‘’chiusura’’ della piscina, tutti escono dall’acqua puntuali e senza fiatare. Piatto di pasta al tonno, a letto con la speranza di chiudere occhio. 
Ormai i km giornalieri non hanno più il passo di quelli nel deserto, e solo 300 ci separano dalla prossima destinazione: Airlie Beach - Whitsundays Island. Si tratta ovviamente di una località di mare, prettamente turistica e dalla quale partono ogni giorno decine di barche con vari tours. In viaggio iniziamo a dare uno sguardo a quello che potrebbe interessarci maggiormente, o quello che meglio calza i nostri budgets. I tours variano da 1 a più giorni, possono comprendere o meno lo snorkeling (maschera e boccaglio) o il diving (immersione), giri in diverse isolette e ovviamente il prezzo varia in base al tipo di imbarcazione scelta. Ma internet non fa altro che confonderci e lasciamo la decisione all’arrivo, più precisamente al centro informazioni. 
Airlie ci accoglie con una strada principale (forse l’unica) che costeggia il porto, ricca di negozi di attrezzature e abbigliamento da mare, bar, ristoranti, ostelli, alberghi, pubs e agenzie turistiche. 
Parcheggiamo il van e entriamo in un ufficio informazioni; spieghiamo alla tipa a cosa siamo interessati e dopo svariate descrizioni dei tour, dei giri attorno alle isole e quant’altro, prenotiamo due degli ultimi posti rimasti per il giorno seguente, di un tour giornaliero presso la tanto rinomata Whitsundays Island. Il tour non comprende la barriera corallina esterna, ossia la ‘’Outer Reef’’, in quanto si tratta di un altro percorso, con una diversa imbarcazione, di cui i prossimi giorni liberi sarebbero da mercoledì in poi. Inoltre il meteo per i prossimi giorni non è dei migliori e nel caso in cui piovesse, il tour si farebbe lo stesso, senza rimborsi. Decidiamo di prenotare solamente il giro attorno all’isola e di lasciarci lo snorkeling (o diving, vedremo poi) più in la.
Cerchiamo anche un campeggio, ma la cosa non è per niente difficile, infatti ci basta attraversare la strada a piedi e siamo arrivati. Costume, asciugamano e siamo nell’ennesima piscina gigante. L’acqua è caldissima, ma sempre meglio della campana di umidità che ci sovrasta. L’aria è talmente carica di acqua che le nuvole, bassissime, coprono parzialmente la montagna accanto. Nel tardo pomeriggio, a farci uscire dall'acqua sono dei lampi in lontananza e l’aria scura. Ma siamo gli unici ad esserne ‘’spaventati’’ ed in effetti poco dopo l’aria è di nuovo pulita e sopra di noi non ci sono più nuvole minacciose. 
Oggi la cena è speciale e diversa dal solito. Abbiamo abbandonato la pasta, gli hamburgers, le salsicce e ci siamo concessi due bistecche. 
Non tardiamo a coricarci, ma stiamo un po’ fuori dal van perché dentro è un forno e perchè il bar del campeggio è piuttosto animato e la musica è ancora alta. Fa piacere vedere un po’ di movimento e rilassarsi nella piazzola senza il terrore di avere animali strani addosso. Certo, l’Autan ci avvolge dalla testa ai piedi, ma è decisamente accettabile e nella norma. Decidiamo di dare un’occhiata ai video che abbiamo fatto fin ad ora e scappa qualche risata nel rivedere quelli dei primi giorni, quando ancora non sapevamo a cosa saremo andati incontro.

domenica 22 febbraio 2015

GIORNO 17 - BUSSOLA VERSO SUD

GIORNO: 20/02/15
STATO: QUEENSLAND
KM GIORNALIERI: 224
PARTITI DA: Cape Tribulation
ARRIVATI A: Babinda

Cape Tribulation sarà ufficialmente il punto più a Nord dell’Australia in cui siamo stati. Da questo momento si inizia ufficialmente la discesa verso Melbourne. Abbiamo a disposizione altri 20 giorni buoni, ma c’è ancora tantissimo da vedere. Salutiamo Alessandro, Monica e Walter, ci scambiamo i contatti e ci auguriamo buona fortuna a vicenda. 
Una quarantina di chilometri a sud del campeggio, subito dopo aver attraversato il fiume con il traghetto, siamo al Daintree River Cruise Centre. Si tratta dell’ennesimo modo di far spendere soldi ai turisti, tramite un giro di un’ora o poco più con un traghetto estremamente basilare, lungo il fiume Daintree appunto, con la speranza di avvistare un coccodrillo. All’entrata del centro, come se i turisti disperati e bramosi di vedere un coccodrillo di chissà quale lunghezza non rendessero abbastanza triste la situazione, c’è un mini coccodrillo chiuso in una cassetta di polistirolo con un filo in plastica a serrargli la mandibola. Gabriele, che in tutti questi giorni non ha nascosto il suo entusiasmo e voglia di vedere un coccodrillo, analizzando ogni singolo canale o fiume ci capitasse lungo la strada, ha deciso di regalare gli ennesimi 5 dollari, per provare l’ebbrezza di tenere in mano il piccolo rettile che in quel momento tutto voleva fuorché fare una foto. Sta di fatto che, saliamo sulla barchetta, speranzosi di veder nuotare vicino a noi (ma non troppo), un maestoso coccodrillo da almeno 5 metri. Ogni ramo ci inganna. Qualsiasi cosa galleggi, attira la nostra attenzione; ogni frutto che cadendo dagli alberi sull’acqua fa un rumore, ci fa girare e aguzzare la vista. Le fotocamere sono pronte a scattare, il video va da ormai 10 minuti, si sa mai scorgessimo qualcosa di interessante. Passa un’ora. Attorno a noi solamente alberi su alberi, canti di uccelli e la voce della guida che cerca di attirare la nostra attenzione con dei dettagli, tutto sommato interessanti, dell’ambiente che ci circonda e dei coccodrilli che dovremmo avvistare. Ma tutto tace. I coccodrilli non ne vogliono sentire di uscire allo scoperto. 

La guida ci spiega che è tutto una questione di temperature: i coccodrilli hanno bisogno di tenere la propria temperatura corporea a circa 32 gradi ed essendo noi nella stagione più calda, l’acqua è ad una temperatura tale che loro non hanno bisogno di cercare di meglio. Costeggiamo diverse volte la riva del fiume, spegniamo il motore della barchetta, tutti i nostri occhi sono concentrati nelle zone in cui i rami degli alberi toccano l’acqua, creando dei micro ambienti che potrebbero ospitarli; ancora nulla. Rassegnati, ci dirigiamo verso la scaletta a riva. Ad un certo punto, come se avesse capito i nostri stati d’animo, un piccolo di coccodrillo di circa 1 anno di vita, ci regala il premio di consolazione. Steso lungo un ramo galleggiante, sta fermo immobile all’ombra di un albero. I suoi 50 cm di lunghezza non sfamano però i nostri occhi e delusi, lasciamo il centro e risaliamo sul van. 
Proseguiamo verso sud e questa volta facciamo tappa per il pranzo a Port Douglas. Siamo nell’ennesimo parco in riva al mare, anche questa volta dotato di docce, bagni, acqua potabile, tavoli e barbecue totalmente gratuiti e puliti. Ci rigeneriamo e ci concediamo una tregua dal caldo umido che ci sta avvolgendo e risucchiando le energie. All’ingresso della spiaggia, il cartello avvisa della probabilità di trovare i coccodrilli in acqua, ma ancora di più le stingers, ossia le meduse. Non abbiamo la minima intenzione di entrare in acqua e questa volta non solo per una probabile congestione come ci suggerirebbero le nostre mamme, ma per non venire divorati da un coccodrillo o feriti o uccisi dalle talvolta mortali meduse. 
Port Douglas
La spiaggia è molto particolare: la sabbia è umida fin dall’ingresso in spiaggia, come se in realtà si trattasse unicamente del bagnasciuga. La sabbia umida ma piatta, lascia poi spazio a quella ondulata e bagnata ma soffice allo stesso tempo. Quando ai nostri piedi arriva l’acqua, mancheranno ancora 200 metri prima di poter dire di star facendo un bagno. Noi limitiamo l’acqua alle caviglie, così come tutte le altre persone presenti. La spiaggia è delimitata anche questa volta, da una fitta vegetazione di palme e altre piante tropicali, che creano delle zone d’ombra rigeneranti. Ancora una volta è come se ci catapultassimo dentro la serie tv ‘’Lost’’. 
Sudiamo da fare schifo. Siamo talmente appiccicati da fare invidia alla Bostik. Abbiamo urgente bisogno di una doccia. Ma Cairns decide di darci di meglio: The Esplanade. Ennesimo complesso comunale GRATUITO con area picnic enorme, bagni e spogliatoi, e piscina stratosferica.Tempo di mettere il costume e siamo in acqua. Gli elicotteri turistici partono da pochi metri da noi, ogni 10 minuti; l’acqua è affollata e calda, ma tutto è tollerabile in una umidissima giornata di 30 gradi di un’estate tropicale. 
Le dita sono rammollite a sufficienza, il corpo si è ristorato, e abbandoniamo l’acqua senza tanto dolore. In realtà usciamo dalla piscina per cercare un campeggio, infatti saremmo rimasti in ammollo altre 3 ore senza problemi. 
Wikicamps ci suggerisce solamente dei campeggi a pagamento qui a Cairns e i commenti non sono dei migliori. Con qualche ricerca su internet, leggiamo che Cairns ha qualche problema di criminalità e che il quartiere di uno dei campeggi su cui dovremmo basare la scelta, ha visto nel 2014 l’uccisione di 8 bambini da parte della madre. Nonostante sia buio ormai, decidiamo di tornare a dormire a Babinda, 40 km più a sud di Cairns, dove abbiamo dormito due notti fa. Forse ci siamo lasciati suggestionare troppo dalle letture, infatti ogni città non è sicura e ha i suoi episodi di cronaca nera, ma nel dubbio, ce ne allontaniamo.




GIORNO 16 - IL FAR NORTH E CAPE TRIBULATION



GIORNO: 19/02/15
STATO: QUEENSLAND
KM GIORNALIERI: 210
PARTITI DA: Babinda
ARRIVATI A: Cape Tribulation




Nonostante fossimo immersi nella giungla, è stata una delle nottate con meno insetti. Piuttosto riposati, lasciamo il campeggio e puntiamo a Nord. L’obiettivo del giorno è arrivare a Cape Tribulation, che si trova a circa 200 km, sempre lungo la costa. Il tragitto è una continua tentazione di deviazioni laterali che portano a cascate, percorsi naturalistici, parchi naturali.

Rex Lookout
In meno di un’ora siamo a Cairns. La attraversiamo senza fermarci e continuiamo. Poco dopo Cairns la strada si affaccia sulla costa. I cartelli ci indicano che la strada che stiamo percorrendo attraversa un’area “patrimonio dell’umanità”. La litoranea si snoda tra foreste di mangrovie e palme sulla nostra sinistra e l’oceano sulla destra. In molte zone manca addirittura la spiaggia e le palme e le mangrovie spuntano direttamente dall’acqua, il tutto a pochi metri dalla strada. Percorriamo 50 km di saliscendi sino a Port Douglas e continuiamo verso nord, verso il Daintree river. Arriviamo sulla riva del fiume e scopriamo che per arrivare a Cape Tribulation l’unica via percorribile è quella di prendere il traghetto che attraversa il fiume. 24$ e 5 minuti dopo siamo sulla sponda nord del river. La strada si fa stretta e la foresta sempre più fitta. 
Arriviamo al Daintree Forest Discovery Centre, scendiamo dal van, paghiamo ed entriamo nel parco. Ci viene consegnata una guida interattiva, decidiamo di prendere l’opzione in italiano, un po’ per pigrizia un po’ per comodità. Ci mettiamo appena 2 minuti a capire che la guida in Italiano è quanto di più patetico e grottesco potessimo trovare. Un misto di errori grammaticali e traduzioni letterali e la parte peggiore è che il tutto è letto e registrato da una persona chiaramente madrelingua, che si suppone avesse dovuto rendersi conto di quanto potesse sembrare ridicolo quello che stava leggendo. 
Ci dà il benvenuto nel parco un ragno di almeno 10 cm di diametro al centro di una ragnatela enorme nella veranda del caseggiato d’ingresso.
Daintree Rainforest
Percorriamo le passerelle che passano a mezza altezza tra le cime degli alberi e il suolo umido. Poco più in là un ruscello fa da contraltare alle mille voci diverse di altrettanti volatili mimetizzati tra le chiome. Arriviamo al centro del parco e saliamo sulla torre per avere una visuale completa dell’area sulla quale ci troviamo. Attorno a noi tutto è rigoglioso, vivo. Percorriamo i vari sentieri nella speranza di avvistare un casuario, ma nulla. intravediamo appena sotto la passerella un pitone marrone e beige che pare sonnecchiare. Usciamo dal parco e continuiamo verso la Jindalba walk. Parcheggiamo e ci addentriamo nella giungla. Ancora una volta siamo sommersi da un verde che non conosce inverno. Siamo ormai alla fine del percorso quando da un ponticello che passa sopra uno dei numerosi corsi d’acqua finalmente riusciamo a vederlo: il casuario!
Casuario
Non sembra preoccuparsi della nostra presenza, beve e si gratta il fitto piumaggio con il becco. Poi si avvicina al ponticello, passa sotto e risale verso il nostro livello alla ricerca di bacche e altro cibo. Percorre parallelamente a noi le poche decine di metri che ci separano dal parcheggio e decide di uscire fuori dalla giungla. Non sembra infastidito da noi e da alcune altre persone che si fermano per scattare alcune foto. Dopo una breve passeggiata lo vediamo scomparire di nuovo nella giungla. Un incontro veramente particolare e interessante soprattutto in virtù della rarità dell’animale.
Arriviamo a Cape Tribulation nel tardo pomeriggio. Paghiamo il campeggio e ci avviciniamo alla spiaggia. Tra il campeggio e l’oceano una passerella di alcune decine di metri sopra un terreno umido e fangoso, con le onnipresenti mangrovie che disegnano una fitta trama.
Attorno a noi centinaia di piccoli granchi, marroni e rossi che scavano piccoli tunnel, passeggiano e si nascondono. Arriviamo alla spiaggia e la troviamo deserta. Di fare il bagno non se ne parla nemmeno visto il concreto pericolo di meduse durante questa stagione. Torniamo al campeggio e ci consoliamo con un tuffo in piscina. Giochiamo con un frisbee e ci rinfreschiamo quando a un certo punto arriva un ragazzo che ci chiede “Italiani?”.
Scopriamo che è di Olbia e sta facendo woofing presso il campeggio. Si chiama Alessandro ed è arrivato da appena tre settimane in Australia, due delle quali passate a Brisbane. 
Per woofing si intende il lavoro in cambio di vitto e alloggio. E’ una pratica abbastanza diffusa soprattutto nelle aree regionali tra i working holiday che riescono in tal modo ad accumulare giorni di lavoro per il rilascio del secondo visto. Il tutto è legale e regolamentato dal governo. 
Mall Beach - Cape Tribulation
Decidiamo di andare a scattare due foto alla spiaggia al tramonto prima di cena.
Durante la cena sentiamo altre due voci italiane. Sono Monica e Walter, una coppia di mezza età di Firenze in vacanza tra sud est asiatico e Australia. Sono già stati in Tailandia e ora si stanno girando la costa est. Ci esprimono le perplessità che hanno trovato sul posto che sono le stesse che avevamo trovato anche noi. Soprattutto il fatto che non avendo consapevolezza del luogo non riusciamo a capire quanto il pericolo di meduse e coccodrilli possa essere reale il che ci lascia in uno stato di costante allerta quando ci troviamo in prossimità di corsi d’acqua e spiagge ma anche solo pozze d’acqua e canali. 
Passiamo una piacevole serata in loro compagnia, ci raccontano dei loro viaggi attorno al mondo e scambiamo alcune considerazioni sullo stato dell’Italia e sulle differenze che abbiamo trovato vivendo qua in Australia. 
Andiamo a letto con la promessa di scambiarci il contatto la mattina dopo.

GIORNO 15 - VERSO IL FAR NORTH E LA GIUNGLA

GIORNO: 18/02/15
STATO: QUEENSLAND
KM GIORNALIERI: 312
PARTITI DA: Ingham
ARRIVATI A: Babinda





Ci svegliamo e partiamo meno presto di quanto il caldo del deserto ci aveva abituato a fare. Riprendiamo la salita verso nord e dopo pochi km prendiamo la prima deviazione della giornata verso le Wallaman Falls. La strada parte da Ingham e si addentra inizialmente tra chilometri e chilometri di campi di canna da zucchero. Poi comincia a salire ed a snodarsi tra le montagne circostanti, nella giungla. La visuale verso valle è completamente oscurata da dei muri verdi di felci, alberi, cespugli. A un certo punto compare un cartello non ancora visto finora: attenzione ai casuari! Il casuario è un animale protetto, somiglia a uno struzzo non fosse che ha la testa blu e il collo rosso. Può diventare pericoloso se si sente minacciato. Madre Natura ha voluto infatti che il casuario fosse dotato di due zampe grosse come quelle di Davids nel periodo glorioso di occhiale tamarro e nandrolone. Il calcio di un casuario, se ben dato, può tranquillamente sventrare un uomo adulto.
Wallaman Falls
Così continuiamo la nostra salita verso le cascate facendo stavolta attenzione al suddetto animale. Non ne avvistiamo nemmeno uno sino alla cima. Scendiamo dal van e sentiamo un forte scrosciare d’acqua. Ci avviciniamo alla lookout e davanti ai nostri occhi si apre una gigantesca gola sul cui lato opposto al nostro scorre un fiume che senza paura decide di lanciarsi per tutti i 270 metri d’altezza della parete rocciosa. Uno spettacolo maestoso e mozzafiato. Alla base della cascata l’acqua ha ormai le sembianze di fumo. Scopriamo che c’è una passeggiata per arrivarci e ci avventuriamo senza notare i cartelli che indicano la durata di 2-3h e la difficoltà moderata. 
Ci rendiamo conto che il percorso è più difficile di quanto avevamo preventivato quando dopo circa una ventina di minuti di ripida discesa su una passerella, il sentiero diventa un letto scosceso di foglie umide in mezzo agli alberi. Cominciano a tornarci alla mente tutti i documentari sugli animali più pericolosi dell’Australia: serpenti, ragni e chissà che altro potrebbe celarsi a pochi centimetri da noi. E capiamo anche che probabilmente le sneakers non sono le scarpe migliori per un percorso del genere. Il caldo inizia a diventare abbastanza pesante, complice l’umidità esasperata dalla notevole quantità d’acqua presente. Continuiamo per altri 10-15 minuti e non avvertiamo nessuno spiraglio che ci possa far sperare di essere quasi arrivati. Ma ciò che veramente ci fa desistere dal nostro proposito è un vivace serpentello che decide di attraversarci la strada.
Dietro-front immediato. in circa 45 minuti di salita siamo di nuovo al van.
Ci ristoriamo, scambiamo due chiacchiere con una coppia di anziani e la loro figlia e decidiamo di ripartire. 
The Boulders - Babinda
Continuiamo la nostra marcia verso nord e arriviamo a “The Boulders” nel territorio di Babinda, circa 50 km a sud di Cairns. Trattasi di alcune pozze d’acqua balneabili che poi si tuffano attraverso alcuni giganteschi massi (boulders appunto) creando un paesaggio spettacolare.
Ben presenti i cartelli che vietano la balneazione al di là del punto in cui l’acqua cessa di essere pozza e si fa torrente. Non ci è dato sapere se “le numerose morti” di cui parlano questi cartelli siano vere, ma la violenza dell’acqua sulle rocce la fa sembrare quanto meno plausibile. 
Decidiamo di restare nel campeggio attrezzato poco lontano, completamente gratuito, con i bagni più che discreti in quanto a pulizia e con le piazzole ben segnate. 
Pensiamo per l’ennesima volta a quanto sarebbe improbabile una cosa del genere in Italia e con un misto di rabbia e rassegnazione ci addormentiamo nel cuore della giungla.

sabato 21 febbraio 2015

GIORNO 13-14 - SI TORNA SULLA COSTA



GIORNO: 16/02/15 -17/02/15
STATO: QUEENSLAND
KM GIORNALIERI: 360 km + 196 km
PARTITI DA: Camooweal 
ARRIVATI A: Townsville - Ingham



Lasciamo Prairie con un nodo in gola; lasciamo Prairie come un’esperienza bellissima. Oggi lasciamo definitivamente l’outback, la polvere, la natura incontaminata, i chilometri di strade circondate dal nulla, la sensazione di libertà e di solitudine allo stesso tempo. Il cuore dell’Australia è affascinante e spaventoso allo stesso tempo. La diversità di clima, paesaggio, stile di vita è sostanziale, e iniziamo un po’ a sentire la mancanza delle comodità delle cittadine, dei supermercati, della presenza di persone attorno a noi. Avvicinandoci alla costa, non ci si saluta più tra autisti perchè oramai la frequenza di macchine non è più una o due per ora, ma è quella di una normale strada provinciale. Troviamo di nuovo il nostro supermercato di fiducia, ma sopratutto il carburante è tornato a prezzi ragionevoli. L’oceano sta diventando la nostra oasi di salvezza, il paesaggio cambia notevolmente man mano che percorriamo i 360 km che ci separano da Townsville; la sabbia rossa, i rari cespugli e alberi dell’Ovest del Queensland, lasciano spazio a sempre più verdi campi, molto più frequenti alberi, nuvole e montagne. Anche il clima inizia a percepirsi diverso: il caldo secco lascia spazio a quello umido e la temperatura è più vicina ai 30 che hai 40. Ci chiediamo se anche gli animali cambino drasticamente; in realtà quello che ci importa di più sono gli insetti. Ci hanno già accennato che ci saranno meno mosche ma più zanzare e tante rane e rospi, ma questi ultimi non ci spaventano. I bagni che incontriamo per strada in effetti, hanno cambiato coinquilini, o comunque il numero è decisamente ridotto. Arriviamo a Townsville, tiriamo un sospiro di sollievo, ci sentiamo quasi a casa. Il clima somiglia molto a quello della nostra Cagliari in una notte di luglio: la roba ti si attacca addosso, la temperatura è sui 28 gradi e quell’alito di vento ti da respiro. 
Parte del Riverway park - Townsville
Troviamo un parco dove restare per dormire e ci dirigiamo verso le docce. Affianco a queste ci sono dei gradini e nel soffitto vediamo riflessi d’acqua. Decidiamo di andare a vedere. Davanti a noi, si estende un’enorme piscina illuminata parzialmente dai fari e totalmente senza recinti. Ci guardiamo stupiti, non capendo se sia vero. Leggiamo ogni cartello presente attorno, cercando quello che ci dice che la piscina sia inaccessibile di notte o che comunque sia a pagamento, ma non lo troviamo. La piscina è bellissima: da una parte, una vasca grandissima che parte con una riva bassissima e arriva a a 2 metri; prosegue poi dietro uno spazio dedicato a tavoli e sedie, formando una U, e creando tante piccole piscine di profondità diverse. Attorno è decorata con sassi, passaggi tra le vasche, luci soffuse. Siamo in paradiso. Rimaniamo in ammollo per almeno un’ora, ancora increduli che una città possa avere una piscina (grande come 3 olimpioniche), gratuita, aperta 24 ore su 24 e favolosa. Tutto è nuovo, nulla è rovinato o maltrattato. Pensiamo a come una cosa così da noi non potrebbe mai funzionare a causa dell’inciviltà delle persone. Al di fuori del complesso della piscina, una fila di 10 docce gratuite, bagni, tavoli e barbecue (gratis e puliti). Dormiamo a Townsville, ma ci spostiamo dove è legale stare per la notte. 

L’indomani mattina, iniziamo a sfogliare un po’ di libri, consultare qualche sito su internet e scegliere da dove iniziare ad esplorare la costa. Da Townsville ci muoveremo prima verso Nord, verso Cairns e poi riaccenderemo lungo la costa fino ad arrivare a Melbourne. Siamo già lungo la barriera corallina, ma decidiamo di concederci ‘’l’immersione’’ più in la con i giorni. 

Jourama falls
Tra Townsville e Cairns, ci sono una marea di parchi naturali e cascate, segnate in tutti i posti tra le attrazioni da non perdere, così ci dirigiamo verso le Jourama falls. Purtroppo, nonostante ci troviamo nella stagione umida e quindi piovosa, la portata d’acqua è minima, ma decidiamo comunque di scendere ai piedi della cascata come anche salire al belvedere. Il paesaggio è comunque favoloso e scattiamo qualche foto prima di risalire sul van. Siamo davvero tanto stanchi, inizia a sentirsi il peso dei chilometri, il sonno arretrato; per un motivo o per un altro (caldo, sete, bagno, mosche, zanzare, insetti, irrigatori dei parchi che ci bagnano il van dentro) ci svegliamo sempre durante la notte. Ci parcheggiamo un paio d’ore vicino ad un orrendo mare, e ci riposiamo un po’. Poco prima del tramonto vengono a farci compagnia 5 o 6 Cockatoo completamente neri, tranne per la coda che lascia intravedere alcune piume rosse tra le altre nere. Sono enormi, 50, forse 60 cm. Rimaniamo incantati a guardarli giocare tra di loro, poggiarsi sugli alti alberi circostanti per poi riprendere il volo, chiamarsi e rispondersi a vicenda con voci ora stridule ora graziose.
Capiamo che è già tardi per riprendere la strada e preferiamo finire così la giornata; cerchiamo un posto in cui dormire. Questa volta, a farci compagnia attorno al van, abbiamo le zanzare e decine e decine di rospi. Per fortuna non fanno schifo ad entrambi, anzi ci incuriosiscono. Andare in bagno non è più un incubo e ci si può andare senza problemi anche la notte, senza rischiare l’infarto.

martedì 17 febbraio 2015

GIORNO 12-13 - THE HEART AND THE SOUL OF AUSTRALIA

GIORNO: 15/02/15 - 16/02/15
STATO: QUEENSLAND
KM GIORNALIERI: 775 + 360
PARTITI DA: Camooweal 
ARRIVATI A: Townsville


La notte a Camooweal non è delle migliori. Un gruppo di ragazzi del posto decide infatti di utilizzare la piscina del campeggio, con musica annessa, verso la mezzanotte e mezza, rendendo di fatto vano il cartello “Pool for paying guests only”. 
Il tempo di romperci le palle a sufficienza e decidono di andarsene. Ci risvegliamo all’alba, doccia e si parte, destinazione est. 
Dopo circa 200Km arriviamo a Mt. Isa, il più importante centro economico e amministrativo del nord-ovest del Queensland, quasi 20mila abitanti e nemmeno un supermarket aperto di domenica mattina. Il luogo deve la sua fortuna alle colline circostanti ricche di argento. Troviamo un Autobarn e troviamo finalmente il mini condizionatore per auto. Sborsiamo la bellezza di 85$ per averlo ma ci rendiamo conto da subito di quanto sia inutile. Ci fermiamo quindi al centro informazioni turistiche “Outback at Isa”, approfittiamo dell’aria condizionata e facciamo incetta di brochure informative sullo Stato. 
Ripartiamo che è quasi ora di pranzo. Il paesaggio cambia e diventa meno monotono. Per circa 60-70 km attraversiamo colline e la strada si fa un po’ più ondulata rispetto ai lunghissimi rettilinei che da Port Augusta in poi ci hanno fatto compagnia. Poi si torna in pianura e tutto torna come prima.
Passiamo Cloncurry, arriviamo a Julie Creek e riforniamo acqua e gas. Ogni sosta è una tortura a causa delle decine di mosche che subito ti assalgono e ti si attaccano sul viso, sugli occhi, sul naso, sulle labbra.
Da Julie Creek in poi troviamo la strada piena di cavallette e il muso del van comincia a diventarne un cimitero. Arriviamo a Richmond e sfruttiamo le docce gratuite dei bagni del lago. Ovviamente le mosche sono lì ad aspettarci. Prepariamo alcuni panini col tonno e ripartiamo. 
Abbiamo già percorso oltre 500km, ma manca ancora parecchio al tramonto e non vogliamo fermarci. Il viaggio sta di fatto diventando una fuga dall’outback verso la costa, verso l’oceano. Abbiamo davvero bisogno di un po’ di respiro, di un po’ di tregua dal caldo soffocante e dagli insetti. Iniziamo a fantasticare su quando arriveremo nuovamente ad una temperatura ragionevole e a quando non dovremo più preoccuparci di esaminare i bagni prima di entrarci, manco fossimo C.S.I. scena del crimine. Passiamo anche Hughenden che si sta facendo buio e continuiamo. 

Arriviamo a Prairie verso le otto e decidiamo di fermarci per la notte. 
Parcheggiamo nel primo e unico pub del villaggio e ci viene incontro Mike, un signore sulla settantina, lunga barba bianca e maglia rossa. Ci chiede se è nostra intenzione rimanere per la notte e ci dice di entrare a chiedere al proprietario del posto. 

Entriamo e troviamo Tom dietro al bancone in legno; età tra i 50 e i 60 anni, testa rasata, occhi azzurri, corporatura robusta. Ci spiega che ora nel campground c’è il bufalo ma possiamo tranquillamente stare gratuitamente fuori dalla recinzione, in maniera tale da evitare incontri troppo ravvicinati. Ordiniamo una birra e una coca e ci accomodiamo negli sgabelli. All’interno del pub, oltre a noi due e Tom ci fanno compagnia due ragazze manichino in blue jeans, una seduta su una sedia da barbiere, l’altra in piedi a farle compagnia. Attorno cimeli di ogni tipo ed epoca. Decine e decine di cappelli in pelle sul soffitto e ai muri, manifesti d’epoca della Shell, una vespa del 1956 (come ha modo di dirmi Tom), alcune cavallette su alcune mensole e sopra il frigo. Nell’angolo opposto all’entrata il biliardo con sopra alcuni manifesti di film. Pare che sia così da parecchio. La parete all’entrata è occupata da una grossa lavagna dedicata ai commenti degli ospiti del pub, che aspetta di essere compilata il prima possibile. Il guests book è aperto in una pagina bianca, altrettanto voglioso di ospiti pronti a imprimere per sempre il proprio nome, che farà sapere a chissà chi che sono passati di qua. Le pareti in legno, il pavimento in parquet, le botti su un lato, le mensole con le cianfrusaglie, i ventilatori a soffitto, rendono l’ambiente ancora più rustico, australiano e accogliente allo stesso tempo. 
Fuori dal pub, assieme a Mike, un ragazzo sulla trentina, cappello da cowboy con sopra poggiati gli occhiali da sole, camicia azzurra e blue jeans strappati per usura e non per moda. 
Usciamo e i due attaccano bottone. Ci sediamo con loro e dopo un po’ si unisce anche Tom, che però pare più interessato al film in televisione che ai discorsi. 
Ci chiedono chi siamo e come mai siamo finiti lì a Prairie e spieghiamo il nostro viaggio. Attorno al tavolo le immancabili cavallette. I tipi ci mettono poco ad intuire la paura di Fra e il mio disagio per la loro presenza. Tom entra dentro e riesce con in mano un notevole esemplare colore verde. Fra scappa. Tutti al tavolo ridono e continuano a bere. Il ragazzo sulla trentina mi offre un bicchiere di vino e nel mentre continuiamo a parlare. Si chiama Kirby e fa il mandriano. Tra una chiacchiera e l’altra continua a ordinare da bere per entrambi, rum e cola. 
Dall’altra parte della strada arriva un camion, parcheggia, l’autista scende e si unisce al gruppo: l’accento più atroce incontrato sinora. Siamo tutti seduti attorno ad un tavolo in legno, sgabelli alti attorno, soffitto del loggiato (rigorosamente in legno) che ospita un numero sconosciuto di cavallette. Fra rimane in piedi in posizione ‘’fuga’’, controllandosi costantemente il corpo per verificare di non avere nulla, e allo stesso tempo buttando uno sguardo attorno per prevedere eventuali salti. I discorsi al tavolo sono svariati, ma rimane il problema che siamo due italiani e quattro australiani. Più le quantità di alcol aumentano nel sangue, più il già incomprensibile australiano dell’outback si fa strascicato.
Kirby mi dice con orgoglio “We feed Australia”, noi sfamiamo l’Australia, e a giudicare dal numero di mucche incontrate lungo il tragitto non stentiamo a credergli. Si offre di farci vivere a pieno l’esperienza dell’outback, l’indomani deve fare dei lavori poco lontano dal pub, dove ha alcune decine di mucche e poi trasportarle verso casa sua. All’inizio titubiamo, poi il suo entusiasmo ci spinge ad accettare. 
La serata continua a svelarci i segreti e forse anche un po’ il fascino di quell’outback dal quale poco prima stavamo scappando. Tom ci mostra l’album di foto del pub come fosse un album di famiglia. Davanti ai nostri occhi scorrono le immagini di una Prairie poco più vecchia, forse 20 o 30 anni fa. Solo le poche decine di metri davanti alle case e al pub erano asfaltate. Oltre, da una parte e dall’altra, l’highway continuava come dirt road, strada bianca (anche se rossa rende meglio l’idea).
Continuano le foto: serpenti catturati, un’invasione di locuste, un canguro ricoperto di fango durante un’alluvione.
Tom ad un certo punto scatta dal tavolo verso qualcosa che ancora non abbiamo visto, si inchina e torna poggiando il contenuto della propria caccia sul tavolo: una rana verde comincia a bazzicare tra i nostri bicchieri, tra le bottiglie, si arrampica sulle braccia di Mike che lascia fare. Poi con un balzo torna a terra e sparisce nella notte australiana.

Diciamo di essere sempre stati incuriositi dai camion col muso, che da noi non esistono. L’autista ci indica la cabina e ci dice di andare a vedere, di curiosare. Saliamo i quattro scalini della cabina e ci ritroviamo nella ‘’seconda casa’’ dei ‘’truck driver’’ australiani. Lo spazio dentro è enorme, decine di luci e manette, la strada appare quasi lontana da lassù. Un letto da una piazza e mezzo, cianfrusaglie e polvere. 
Torniamo al tavolo e Mike ci prende sottobraccio e ci porta poco lontano dalla luce per indicarci le stelle, ci spiega qual è la Southern Cross, ci dice che indica sempre il sud e se sappiamo riconoscerla non ci possiamo perdere. 
Ci racconta del suo viaggio in Argentina per un incontro di rugby, si indica lo stemma sul petto, la maglia ricordo di quell’esperienza. 
Tom ancora non riesce a capacitarsi della fobia di Fra delle cavallette e non riesce a fare a meno di perseguitarla; con nonchalance entra dentro e ne prende una sui 10 cm, da chissà quale mensola del bar. Si avvicina a Fra, che però fugge come se non ci fosse un domani, pregandolo in tutti i modi di non accorciare le distanze; ma il posto è un campo minato, e allontanarsi da una, significa avvicinarsi ad un’altra cavalletta. Decidiamo di fare una foto tutti assieme: treppiede e camera in posizione, tutti in posa dietro al tavolo. Click. Tom, alla sinistra di Fra, solleva la sua mano da sotto al tavolo. Ha l’ennesima cavalletta. Fra fa un salto con urlo annesso e si allontana dal tavolo. La foto racconta quell’attimo, attraverso il sorriso di Fra per lo scatto, e i suoi occhi che hanno appena identificato la cavalletta a 10 cm da lei. 
Torniamo al tavolo. Tom prende la sua moto, un Harley, e scompare.
Kirby ci dice con orgoglio “This is the heart and the soul of Australia” e ancora una volta non stentiamo a credergli. Ci dà appuntamento per l’indomani mattina alle sette davanti al pub.
Tom torna con un lenzuolo nero all’interno del quale pare che ci sia una palla. Lo poggia sul tavolo e lo scopre. All’interno una boccia di vetro con un serpente giallo, perfettamente conservato. E’ andato a casa sua a prenderlo perché ci teneva a farcelo vedere. Prende dalle tasche un piccolo contenitore dal quale estrae due fossili di granchio. Dice che sono vecchi di duecento milioni di anni. Se ciò sia vero e come lui ne sia entrato in possesso non è dato saperlo. Mi dice di chiudere gli occhi e di tenere la mano aperta verso l’alto. Fra mi dice che nel caso in cui ci sia qualcosa di vivo mi avvisa. Mi dice di seguire con l’immaginazione il suo racconto. Mi ritrovo sulla costa del New South Wales, cento milioni di anni fa, a osservare l’oceano e gli pterodattili che volano sopra la mia testa. A un certo punto una pietra cade nella mia mano, apro gli occhi e la osservo. Uno pterodattilo mi ha appena cagato in mano. Tom mi spiega che quella pietra è un fossile di merda di dinosauro. Ancora una volta le circostanze di come e quando e perché non le sappiamo. 
Andiamo a dormire ma siamo ancora attoniti per la stranezza della serata.

Ci svegliamo all’alba e andiamo verso il pub. Le mosche e le cavallette sono già al loro posto, come sempre. Mike ci saluta, ha dormito lì. I due manichini anche. Decidiamo di regalare a Tom una bottiglia del nostro ragù. La sera prima ci ha detto che va pazzo per la pasta. La cosa lo rende particolarmente entusiasta. Ci dice che regalare del cibo è una cosa fantastica e che ormai nessuno lo fa più. Ci chiede cosa prendiamo per colazione, ordiniamo due te caldi e 3 minuti dopo sono già pronti. Gli chiediamo quanto gli dobbiamo, ci dice “nothing” e indica la bottiglia di sugo.
Ci dice di affrettarci che Kirby è già all’opera. Finiamo il te e ci mostra la strada per raggiungerlo. Arriviamo e lo vediamo all’opera, stessa camicia, stesso cappello con gli occhiali da sole in cima, stessi jeans. Sta spostando le proprie mucche da un recinto all’altro, facendole prima passare per una vasca; confessiamo la nostra ignoranza in merito. Dopo un po’ ci chiama e ci fa entrare nel recinto. Ci lascia spostare alcune decine di mucche anche a noi. All’inizio non riusciamo e le facciamo scappare dalla parte opposta, poi capiamo il meccanismo e riusciamo nel compito. Lui intanto se la ride. Ci parla di un ipotetico giro in elicottero, ma non capiamo a cosa si riferisce. Alle 9 arriva Ben con il suo camion. Le mucche vengono incanalate in un passaggio più stretto e nel giro di pochi minuti sono tutte sopra.
Fra va col camion, io sto dietro a poca distanza con Kirby. Mi spiega che le sta portando a casa sua. Gli chiedo se sia lontano e mi dice di no, che è poco distante.
Gli chiedo se è mai stato all’estero. Mi dice che è stato un anno in Canada, poi ha vissuto a Londra, ma è stato come turista anche in Sud Africa e in Egitto. Fra invece mi racconta di aver chiacchierato con Ben, l’autista e che ha avuto modo di capire meglio come sia la sua vita quotidiana nel cuore del Queensland. Ben è felice di vivere nella pace e tranquillità delle campagne desolate di Prairie; è felice di non vivere in città, perchè, come spiega, noi non riusciamo ad abituarci agli insetti, come lui non potrebbe mai farlo delle persone. Ben risponde alle domande curiose di Fra, e ne fa altrettante a lei per scambiare piccoli frammenti delle proprie esperienze. Ben spiega che a Prairie c’è la scuola elementare ed è composta da pochissimi bambini; racconta poi con normalità che, non essendoci un ospedale, le persone vengono caricate sugli elicotteri nel caso di emergenza. Prairie è come una famiglia e Ben non sarebbe mai in grado di fidarsi delle persone in una grande città.

Percorriamo 40 km di strada asfaltata tra mandrie di bestiame e billabong, termine usato per indicare le pozze d’acqua stagnante. Il terreno è arido, sabbioso. Poi deviamo verso destra ed entriamo in una dirt road. Continuiamo per altre 30, forse 40 km. Superiamo alcune sbarre e mi dice che quelle indicano l’accesso al suo possedimento. Superiamo una collinetta e davanti ai nostri occhi si apre una vallata verdeggiante. Mi spiega che tutto quello che vedo, sino ad alcune colline che si vedono a parecchi chilometri di distanza, è suo. Da un lato e dall’altro della strada decine e decine di bovini lasciati liberi a pascolare lungo la valle. Arriviamo a casa sua, l’unica casa nel giro di decine di chilometri e vediamo un elicottero decollare. Gli chiedo se lo sa guidare e mi dice di no. Mi spiega che l’elicottero è l’unico modo che hanno per controllare e per spostare le mandrie da un posto all’altro. A casa sua ci offre da bere e da mangiare, poi ci porta in giro col suo 4x4. Incontriamo suo fratello intento a spostare una piccola mandria a bordo di una moto da cross. Vediamo piccoli fiumi, pozze d’acqua con decine di bovini attorno, oppure all’ombra degli alberi bassi e radi, per alcuni aspetti sembra di essere all’interno di un documentario. Ci spiega che possiede tra le 2000 e le 2400 mucche. Fra chiede se ognuna di questa ha un nome, lui ci guarda e si mette a ridere. Torniamo verso casa sua, ci chiede se vogliamo rimanere ancora o se vogliamo tornare al pub. Decidiamo di tornare. Lui pare un po’ dispiaciuto ma capisce. Lo abbracciamo e scambiamo il contatto Facebook, lo invitiamo a venire a trovarci in Sardegna, e non escludiamo lo possa fare davvero un giorno. Risaliamo in camion con Ben e diamo un ultimo saluto a quella valle, forse anche a Kirby, alla sua famiglia e alle sue mucche. Ripercorriamo gli ottanta km che ci separano dal van, a Prairie, 40, forse 50 abitanti, il posto abitato più vicino. Arriviamo e i manichini hanno deciso di approfittare della giornata piacevole per sedersi fuori. Una legge il giornale, l’altra in piedi sorseggia un caffè. Tom ci chiede se abbiamo pensato ci fosse realmente qualcuno arrivando da lontano. Effettivamente si, glielo diciamo e lui pare contento. Lo salutiamo, lo ringraziamo. Lui ci dice che il sugo era ottimo. Ripartiamo, lui si sbraccia e ci fermiamo, ci dice che il vetro è lercio e lo è davvero, spruzza un po’ d’acqua e con la mano pulisce i resti delle cavallette del giorno prima. 
Difficile dimenticare la notte appena trascorsa e questa mattinata; tutto è impresso nella mente grazie ai ricordi, le sensazioni, le foto… La cicatrice. Si, la cicatrice. Quella che mi uscirà a breve dal graffio delle unghie di Fra sul mio braccio, quando ha tentato di scappare dall’ennesima cavalletta. 
Stavamo cercando di scappare e ci siamo finiti dentro sino al collo, nella parte più dura, più selvaggia dell’Australia. Forse era questo che ci spaventava. L’outback non ha compromessi, è polvere, sudore e cavallette, ma ha un pregio inestimabile, è sincero, sino all’osso. E la sua durezza, la sua bruttezza te la mette sul piatto da subito, non la nasconde. Dritta in faccia, come il sole cocente, come le mosche. Il cuore e l’anima dell’Australia.